La forzata permanenza in casa, legata alle misure di contenimento del Virus Covid-19, ha comportato per tutti noi un cambiamento significativo alle abitudini di vita cui eravamo oramai assuefatti. Un aspetto positivo, dal mio punto di vista, è il vederci restituito un bene che, forse, abbiamo troppo spesso sottovalutato: il tempo. Tempo per leggere, tempo per scrivere, per pensare, per osservare quello che accade intorno a noi, ma anche da dedicare a noi stessi. In questi ultimi giorni, la mia attenzione è stata attratta dalle mille discussioni e tavole rotonde conseguenti al protrarsi delle limitazioni ai movimenti ed al possibile impatto, dal punto di vista psicologico, che tale decisione potrebbe riflettere sul comportamento di ciascuno di noi.
Ovviamente non vengo qui a fare considerazioni di natura scientifica, non avendone le necessarie competenze ed un’adeguata cultura. Mi piace però condividere con voi tutti alcune considerazioni, semplici pensieri espressi a voce alta.
Riflettevo su quanto, ormai da tempo, tutti i media riportano in ordine all’incremento di alcuni comportamenti personali legati a questa forzata segregazione, primo su tutti un aumento degli atteggiamenti aggressivi, sia in ambito familiare che, più in generale, nell’ambito sociale. Tale comportamento potrebbe trovare verosimilmente origine nell’isolamento sociale cui siamo costretti. “L’uomo è un animale sociale. Una situazione di isolamento sociale conduce inevitabilmente a degli squilibri”.
Come spesso (sempre) accade, ad un “input” inerente un qualsiasi aspetto del comportamento, il pensiero “corre” immediatamente ai miei amati amici a 4 zampe: è un mio sillogismo mentale che definirei “innato”, per usare un termine di uso comune nella cinofilia. Credo sia un po’ il sogno di tutti noi che ci occupiamo, a qualsiasi livello, dei fedeli compagni pelosi, riuscire a comprendere il perché dei loro comportamenti e di come, a volte inconsapevolmente, influiamo su questi (soprattutto in maniera negativa). Ritenendo che molti aspetti comportamentali, soprattutto in ragione delle reazioni a determinati stimoli, non siano molto dissimili tra uomini e cani (alla fine di mammiferi si parla….), tendo spesso a creare sillogismi tra le due cose.
Come noto oramai a tutti, infatti, il cane è anch’esso un animale sociale, e così come l’uomo presenta un bisogno etologico, non solo di stare nel gruppo-famiglia, ma anche il lavorare in concerto con gli altri membri, per garantirne il funzionamento ed il benessere. Può quindi influire l’isolamento sociale dei cani relegati per lungo tempo alla solitudine allo sviluppo ed all’aumento dell’aggressività? Ovviamente ho iniziato a curiosare in rete, questo potente (ed ormai insostituibile) mezzo, alla ricerca di qualcosa che potesse aiutarmi in questa riflessione. Devo dire che la rete, in questo senso, non delude quasi mai. Ho appreso che sono arrivato buon ultimo: l’argomento è stato già in passato oggetto di studi scientifici. In una serie di esperimenti sui topi, basati sui precedenti studi sul moscerino della frutta, Moriel Zelikowsky ed alcuni colleghi hanno osservato che l'isolamento sociale degli animali, protratto per almeno due settimane, induce cambiamenti duraturi nel comportamento - maggiore aggressività nei confronti di topi sconosciuti, paura persistente e ipersensibilità alle minacce - rispetto agli esemplari che avevano avuto solo un isolamento breve o nessun isolamento. Ciò che mi colpisce maggiormente nei risultati della ricerca scientifica condotta è l’affermazione che taluni cambiamenti possono divenire duraturi nel comportamento: pensare che un comportamento aggressivo possa divenire “duraturo”, e quindi entrare a far parte del repertorio comportamentale di un cane, sarebbe un epilogo che non mi entusiasmerebbe molto.
Ma in che modo potrebbe divenire duraturo? Per poter pensare di dare una risposta a questa domanda dovremmo innanzitutto definire cosa si intende per aggressività, per poi tentare un’analisi del come e perché questo comportamento si manifesta. Una definizione che trovo particolarmente attagliata all’aggressività è che questa sia un comportamento orientato verso l'eliminazione della competizione, e si differenzi dalla dominanza, o «socio-aggressività», per l’epilogo cui potrebbe sfociare: se una delle parti subisce delle lesioni, il comportamento è definibile come aggressivo; se ciò non accade il comportamento potrebbe essere semplicemente classificato come dominanza, finalizzato cioè ad eliminare la competizione con un compagno, senza alcun ferimento da entrambe le parti. L’aggressività potrebbe essere quindi definita come un qualsiasi comportamento creato per arrecare danno ad un altro individuo, o un comportamento la cui unica finalità è quella di aver accesso (o conservare) una risorsa? In tale quadro, l’aggressività deve essere interpretata come un comportamento volontario o una naturale reazione involontaria? Freud indicò i comportamenti aggressivi come reattivi: essi comparirebbero se qualcosa impedisce il raggiungimento del soddisfacimento di desideri che sono legati alle pulsioni di autoconservazione o alla frustrazione. Si tratta quindi di “un automatismo” che scatta per “difendere” qualcosa che si ritiene indispensabile alla propria sopravvivenza (esigenze primarie) o per averne accesso? Filogenesi ed ontogenesi possono certamente confermare che l’aggressività è insita ma……a questo punto un dubbio (….un altro!). E se nel tempo divenisse un comportamento appreso? Potrebbe quindi, seppur inizialmente insito, trovare pieno sviluppo solo dopo averlo esercitato e, magari, averlo trovato vantaggioso? Secondo alcuni studi sul condizionamento sociale di Patterson e Bandura sembrerebbe che si, il comportamento aggressivo si può apprendere.
Nell’ambito comportamentista l’aggressività è teorizzata come frutto del condizionamento operante. In altre parole, il soggetto nel corso della sua storia apprende e consolida i comportamenti aggressivi nella misura in cui le conseguenze prodotte da tali condotte creano dei vantaggi. Quindi, laddove le conseguenze positive sono di gran lunga maggiori rispetto a quelle negative, l’aggressività tende a rinforzarsi e a consolidarsi.
Ovviamente tali studi erano condotti sugli esseri umani ma, molto spesso, i punti di contatto tra i mammiferi, in generali, sono davvero molti. E’ innegabile, credo, che sia per la scuola di pensiero behaviorista, quanto per quella cognitivista, il raggiungimento di un determinato obiettivo (chiusura del cerchio tra desiderato ed ottenuto) svolga una funzione di rinforzo per creare un’associazione stabile tra un comportamento e le conseguenze dello stesso. Potrebbe quindi essere possibile applicare lo stesso ragionamento utilizzato per gli studi sull’umano sui nostri cani? E’ possibile ipotizzare che, ad un certo punto, il comportamento aggressivo diventi parte del repertorio comportamentale del singolo individuo (e ciascun cane lo è, unico ed irripetibile) come “strategia” comportamentale e non come anomalia?
Mi piacerà continuare a rifletterci………
Pier Paolo Perisotto
Tecnico in riabilitazione comportamentale OPES
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